In continuità con quanto si era vissuto a gennaio presso la casa di reclusione di Fossano, uniti idealmente dall’ancora realizzata dai detenuti là presenti, è stato molto significativo il Giubileo del carcere vissuto a Cuneo sabato scorso 12 aprile. Non solo Giubileo dei detenuti, ma del Carcere in quanto ciò che si trova dall’altra parte dello Stura è un paese. Ogni giorno, oltre alla popolazione residente dei reclusi si aggiunge un bel manipolo di agenti di polizia penitenziaria, di persone vocate all’Amministrazione penitenziaria (Direttore, Educatori…), cappellano, volontari e volontarie che si alternano nell’assistenza e nel supporto ad attività riabilitanti. Molto efficace la testimonianza di Max che, dopo la detenzione nel difficile percorso di recupero, ha trovato la compagnia di persone che l’hanno aiutato a riabilitarsi: ora lavora nella panetteria del carcere e insegna ad altri detenuti il mestiere. Vite al rallentatore quelle dei reclusi: porte che si aprono e si chiudono per i passaggi da un ambiente all’altro; in attesa non solo della libertà ma pure di un sostegno per imparare un mestiere o una lingua (molta popolazione carceraria a Cuneo è extracomunitaria!!), per un colloquio con un volontario al fine di trovare una soluzione ad un problema contingente; o ancora l’attesa di un momento di preghiera nella propria tradizione religiosa.
Ma sabato è stato qualcosa di più: le porte – una soglia da attraversare – hanno visto il passaggio di circa 250 cittadini cuneesi che si erano dati appuntamento per un pellegrinaggio giubilare dal centro della città alla Casa Circondariale di Cerialdo. Partiti dalla Chiesa di Santa Croce, che porta nella sua storia l’impegno di tante persone che nei secoli passati hanno incarnato l’evangelico comando di ‘visitare i carcerati’, facendo tappa al luogo dove venivano impiccati o ghigliottinati i detenuti, si è giunti all’interno del primo cortile. Una celebrazione semplice e sentita. Molti cittadini che hanno oltrepassato quella porta per la prima volta, hanno potuto prendere coscienza del disagio che si vive all’interno per la privazione della libertà. Ma anche, come si è percepito dal racconto del capo degli educatori e dei volontari, le belle pagine di riformulazione di vite sospese nel limbo di una pena che sembra non finire mai (e per alcuni non finisce mai!). Così si è dato corpo e gambe all’auspicio che papa Francesco ha ripresentato quando a fine dicembre ha aperto la porta giubilare del carcere di Rebibbia. Segni tangibili di una comunità che desidera fare i conti con una popolazione invisibile, che l’edilizia carceraria del dopoguerra ha allontanato dagli occhi progettando questi contenitori di umanità ferita e fragile fuori delle città. Si è attraversato un fiume, le due sponde sono apparse più vicine e ci si è resi conto che ‘siamo tutti sulla stessa barca’: abbiamo tutti qualcosa da farci perdonare e tutti possiamo donare un perdono. È proprio così: la vita non si irradia dal centro dove ferve di più verso i margini, ma dai margini giunge a irrorare il centro.
La corda alla quale ad un certo punto della celebrazione eravamo appigliati tutti quanti in cerchio, ha rappresentato al vivo questo legame che può tenere insieme vite frammentate in cerca di un’ancora da gettare, per non affogare nel mare del disprezzo quanti hanno sbagliato.




